CSI - Centro Sportivo Italiano - Comitato di Milano

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Mons. Galantino: "Anche io sono stato tesserato del Csi"

C’è sempre qualcosa da fare di meno imbarazzante per le nostre coscienze. C’è sempre qualche notizia meno esigente da comunicare per i nostri media, sempre più abituati ad attivarsi a comando, semmai invitandoci a occupare le curve riservate agli ultras di quello stadio virtuale che è diventato il mondo della comunicazione. Anche questa volta il grido di una mamma che ha perso un figlio, si è spento inesorabilmente presto nelle cronache dei giornali e della tv. Mi riferisco al grido di dolore della mamma di Giò, il sedicenne di Lavagna, morto suicida. Eppure, partecipando a un affollato incontro di educatori, a Bologna, ho incontrato gente che non vuole assuefarsi. Nella certezza che è ancora possibile accompagnare le nuove generazioni nei loro processi di crescita e che non è giusto lasciare che le mamme e i papà dei tanti Giò restino soli con la percezione (talvolta la certezza) di aver fallito nella loro vita; e nella certezza che accettare oggi il compito educativo significa incontrare una fragilità che appare sempre più pervasiva, dilagante e angosciosa. Non serve essere pessimisti e pensare l’educazione solo in termini drammatici; ma non si può nemmeno essere ingenui e chiudere gli occhi sulle fatiche di crescere oggi. Trasformare la fragilità dei giovani in “luogo” per relazioni vere e per proposte realistiche e sensate è forse la sfida più grande che abbiamo dinanzi a noi. Quante volte mi è capitato di sentire (anche quando ero parroco) le lamentele di chi avrebbe voluto incontrare solo ragazzi e giovani già formati, pienamente inseriti in una vita di fede. La più classica delle espressioni è quella di chi mi diceva: «Non sanno fare nemmeno il segno della croce».

Si sa: gli animali accudiscono i propri cuccioli, gli umani li educano. A trasformare un gesto di accudimento in una pratica educativa è il decidere di farlo ponendo gesti continui di “cura” che fanno vivere in maniera piena e consapevole. Chi educa i propri figli, lo fa (di solito)... facendo altro: mentre si gioca, si fanno i compiti, si sta a tavola, si fa una passeggiata insieme. I genitori non dicono mai «vieni, che adesso ti educo»; ma lo fanno mentre vivono insieme ai figli la quotidianità perché loro compito è “educare a vivere” (V. Andreoli) . Ma, “per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”, come recita un proverbio africano ricordandoci che educare è una pratica complessa e che, proprio per questo, porta frutti solo in presenza di alleanze feconde.

Questi pensieri mi sono nati dalla riflessione sulla cronaca di cui tutti siamo partecipi e dal confronto franco con i partecipanti al Convegno organizzato dalla Pastorale giovanile della Chiesa italiana. Con don Michele e don Gero ho incontrato oltre settecento persone impegnate ogni giorno a formare adolescenti e giovani nelle parrocchie e negli oratori italiani. Contesti ecclesiali, certo! Ma contesti che spesso svolgono un vero e proprio servizio pubblico. Chi non si accorge, soprattutto in estate, delle centinaia di migliaia di bambini e ragazzi, seguiti da giovani educatori che li accompagnano in attività di gioco e di formazione? Sempre e prevalentemente attorno alle parrocchie, tra le tante altre, si svolge l’attività del Centro Sportivo Italiano: un milione di tesserati (lo sono stato anch’io fino al 1968!) che fanno dello sport un valore per la crescita umana e della società. Un patrimonio che ancora oggi porta tantissime persone a individuare i bisogni sociali e a incontrarli anzitutto laddove non ci sono risposte. Stando accanto alle famiglie, allacciando alleanze con le istituzioni e con le scuole, esse provano ancora a tessere pazientemente la rete delle collaborazioni perché tutti insieme si possa vivere in un contesto che non dimentica di investire in educazione. Un investimento che non produce reddito, ma può offrire respiro e futuro a una società che fatica a trovarne.

A Bologna ho trovato raccolte ed espresse tante domande sul “perché” educare e “come si fa” a educare. Domande lecite alle quali non penso si possa rispondere tornando a riscrivere un “vademecum” del buon educatore. Alcuni atteggiamenti mi sembra però possano essere cercati e praticati insieme, partendo da un nuovo “sguardo sui giovani”. Troppi adulti sono ancora prigionieri dei propri pregiudizi. Sia chiaro, non sto invitando a una benevolenza a buon mercato. Sto piuttosto invocando “cura e attesa”, come recita lo slogan del Convegno. Concretamente si tratta di provare a cambiare lo sguardo e a sospendere il giudizio e ogni forma di generalizzazione. Non si può avere la pretesa di conoscere i ragazzi a prescindere. Chi li avvicina chiamandoli per nome, scopre quanto ognuno di essi sia davvero unico e irripetibile. Che ricchezza! Altro che inquadrare i giovani attraverso uno specchietto retrovisore, applicando a loro le categorie che andavano bene per noi adulti!

Solo uno sguardo nuovo sui giovani permette di “costruire esperienze di senso”. La mia frequentazione di giovani mi dice che, quando coinvolti, i giovani non mancano di sorprendere. Ingaggiati in processi di trasformazione reali, si rimane stupiti dal pragmatismo e dalla consapevolezza che anima la loro partecipazione. È difficile – è vero - che riescano a riconoscere il carattere della definitività all’immediato, ma sanno appassionarsi anche a imprese temporanee che, se intelligenti, riescono a trasmettere il senso profondo delle cose. Ma questo richiede che si costruiscano contesti di senso, fuori dai banali criteri della fiction e del talent. Ciò rende l’educatore realmente “generativo”, allontanando la convinzione dell’educazione come meccanismo di trasmissione di valori o modelli di condotta. Si è generativi solo se si è disposti ad accogliere la richiesta di senso che anima tanti giovani desiderosi di costruirsi come protagonisti di storie significative, che li aiuta a vedere “oltre” la precarietà, a rielaborare le esperienze e a coglierne con spirito critico limiti e possibilità.

Per questo c’è bisogno di adulti disposti a non presentarsi come degli eterni adolescenti, imprigionati dal mito di una giovinezza che passa per tutti. Se è vero che i giovani cercano contesti reali dove crescere fra pari (chi non ricorda con una certa nostalgia il valore del gruppo degli amici nell’età della giovinezza?), dall’altro gli adulti devono accettare di essere l’elemento “dispari” fra questi pari.  

(di Nunzio Galantino)

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